Quando ho saputo del lancio di Steinbock Alcohol Free Sparkling, prima bollicina italiana dealcolata firmata da un grande brand, ho sorriso e ne ho ordinato subito una bottiglia pensando che un produttore coraggioso aveva finalmente gettato il sasso nello stagno e bisognava dargliene concretamente atto.
Non mi ha spinto tanto la volontà di provarlo, è un genere che non mi appassionerebbe, il mio rapporto con il mondo enoico è legato alla sua ancestrale essenza che non può che essere alcolica, e d’altro canto le comparazioni tecniche le lascio a chi le fa per mestiere.
È stata più la volontà di essere presente con l’atto più significativo, che è l’acquisto, in un passaggio che potrebbe essere importante per l’evoluzione del mondo vitivinicolo italiano.
Determinato e lungimirante, Martin Foradori Hofstätter ha sfidato le inevitabili reazioni convulse del suo mercato tradizionale, che non sono tardate ad arrivare, di fronte ad un’operazione sicuramente difficile da far digerire ma di fatto capace di cogliere tempestivamente un’esigenza emergente.
L’esigenza di un mercato, attenzione, che non è chiaramente quello degli enoappassionati, dei winelovers, e ancor meno dei puristi, quanto di quel mondo che è distante dalla nostra (mi ci includo con forza) realtà per i più svariati motivi: dall’età, alle condizioni di salute, alla religione e che da oggi ha la fortuna di poter godere di un prodotto Made in Italy realizzato con tutti i crismi da una azienda di grande esperienza.
Un prodotto studiato ben prima che scoppiassero le polemiche sul “vino annacquato”, che nasce da anni di ricerca e dall’applicazione di una tecnica di distillazione sottovuoto che consente di far evaporare l’alcol mantenendo intatte molte (non tutte è evidente) delle caratteristiche delle uve.
La varietà di uve scelta è il Riesling, le bottiglie prodotte sono 20mila e, udite udite, in etichetta si parla di “bevanda” ed è riportata la data di scadenza, ulteriore elemento per chiarire una volta di più che si tratta di un prodotto molto diverso dal vino.
Insomma io un plauso a Martin Foradori lo farei, e se fossi un imprenditore penserei a come entrare in un business che non offende nessuno se approcciato con rispetto della tradizione enologica italiana, creando solo nuove opportunità per la traduzione in prodotti di qualità dell’attività vitivinicola.
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