Ci sono luoghi destinati a vivere l’evoluzione in modo singolare: isolati, immersi in una identità forte e indifferente all’avvicendarsi della storia e delle stagioni, astratti rispetto a quanto li circonda, simulacri di un tempo che fu e che miracolosamente ancora vive nelle forme immutate di un paesaggio che lascia senza fiato nel mostrarsi come una Atlantide mai sommersa.
La loro natura li rende simili a musei, esposizioni di archeologia paesaggistica e agricola, in cui il viaggiatore si immerge scoprendo che ci si può calare in una realtà esattamente così com’era due o trecento anni prima senza bisogno di ricorrere ad una macchina del tempo o ad un artificio virtuale.
Tramonti, paese agricolo campano sito nell’entroterra della costiera amalfitana e dalle origini incerte, ne è piena espressione: nato probabilmente da insediamenti Picentini ed Etruschi, crebbe durante il periodo florido della Repubblica di Amalfi alla cui caduta seguì il suo totale isolamento durato fino all’Ottocento, quando la realizzazione del valico di Chiunzi riaprì una porta sul resto del mondo.
Oggi Patrimonio Mondiale dell’Unesco, è un universo dove la biodiversità non è una condizione da ricostruire ma semplicemente da difendere e preservare perché è sempre stata lì, immutata, nei secoli, regalando i suoi meravigliosi frutti grazie all’allevamento delle mucche da latte e ad una agricoltura di sostentamento praticata con tecniche arcaiche apprese dai contadini di generazione in generazione, tramandata dai monaci e prima ancora dai romani.
La geografia e lo stesso nome ne raccontano il carattere: abbarbicato “intra montes”, tra i Monti Lattari di formazione dolomitico calcarea le cui cime toccano i 1.300 metri di altitudine, attraversato da gole scoscese ricoperte da boschi rigogliosi di castagni, noci e querce, Tramonti ha il fascino dei luoghi segreti ancora da scoprire, con le sue pareti verticali e i suoi panorami a strapiombo, i suoi terrazzamenti coltivati a viti, ulivi e limoni, dove il mare cede il passo alla montagna, la temperatura scende e con essa anche il clamore del versante ammaliante della costiera, quello di Ravello, Amalfi, Sorrento e Positano, pronto ad ospitare turisti abituali provenienti da ogni parte del mondo.
Comune senza centro, perché le tredici borgate che lo compongono hanno sempre mantenuto la propria autonomia, per il suo essere estraneo alla mondanità e ai suoi riflessi sull’economia Tramonti ha vissuto una progressiva diaspora dei suoi abitanti, partiti in cerca di fortuna altrove, spesso all’estero.
Tutto questo fino agli inizi del nuovo millennio, quando un nucleo tenace di produttori ha frenato l’allontanamento delle braccia da queste terre dedicandosi alla difesa e al rilancio del territorio e delle sue ricchezze, prima fra tutte la vite.
Sono infatti pochi i luoghi nel mondo che possono farsi culla e scrigno di un patrimonio ampelografico ampio e unico quanto quello di Tramonti: piante di tintore, aglianico e piedirosso a piede franco tra le più antiche sopravvissute alla fillossera e che qui si manifestano nella loro veste più arcaica. E ancora autoctoni strettamente riconducibili a queste terre come pepella, biancazita, biancatenera e ginestra.
L’isolamento e la vicinanza al mare, le potenti correnti ascensionali che risalendo le gole strette coltivate portano con sé la brezza marina e la sua salinità, hanno tenuto lontano l’insetto che ha devastato i vigneti di tutta Europa alla fine dell’Ottocento.
A fare la loro parte anche la natura dei suoli di un singolare colore rossastro, la terra “vulpegna” come la chiamano i contadini, perché simile al pelo della volpe: un composto sabbioso, tufaceo e calcareo al quale si sono aggiunti in stratificazione ceneri e lapilli che il Vesuvio, con le sue ripetute eruzioni nel corso dei millenni, è riuscito a far arrivare fin qui.
Gaetano Bove, tra gli imprenditori che si sono resi protagonisti del rilancio di questo terroir unico, ne parla con venerazione interpretando appieno il ruolo di custode di un patrimonio inestimabile tramandato da almeno venti generazioni.
Nel 2004 insieme al fratello Generoso e agli altri due soci, Vincenzo D’Avino e Luigi Giordano, ha dato vita ad una delle realtà vitivinicole più rappresentative di Tramonti.
Tenuta San Francesco, che prende il nome dal santo venerato dai monaci e qui considerato protettore dei viticoltori, si estende per 14 ettari e vede la sua cantina collocata in una masseria storica del 700.
Nei piccoli terrazzamenti che ospitano esemplari di tre, quattrocento anni di età, la coltivazione è quasi proibitiva: le viti piantate sulla macera, i muri verticali di contenimento, crescono fra rocce e terra scoscesa e richiedono di essere lavorate rigorosamente a mano con piccole rese a fronte di una grande fatica. Non è un caso se si parla di viticoltura estrema o eroica.
Nel passeggiare sotto le pergole tramontine della tenuta si tocca con mano una verità dimenticata: un tempo le viti erano alberi, nella sostanza come nella forma. La loro natura antica a Tramonti si manifesta in tutta la sua potenza: maestosi tronchi contorti, aggrovigliati a pali di castagno da cui i rami si dipanano in pergolati lunghi oltre dieci metri, tendoni naturali all’ombra dei quali i vignaioli svolgono le proprie attività. Perché in questi spazi, oltre alla coltivazione della vite, ci si dedica ad altre colture stagionali come grano e ortaggi e ai margini sono presenti anche alberi da frutto. Questa competizione della vite con altre specie vegetali ne migliora la qualità dell’uva.
Il protagonista qui è il tintore: e non a caso il nome scelto per il Campania Tintore di Tramonti Prephilloxera Igt – “E’ iss” (che tradotto in italiano significa “è proprio lui”) – nasce dalla convinzione che questo autoctono possa essere vessillo non solo delle sue terre di origine ma dell’intera regione.
Utilizzato in passato come uva da taglio, per la lavorazione dei vini di Gragnano, ma anche, come dice lo stesso nome, per conferire colore grazie ad una buccia ricca di antociani, oggi è vinificato in purezza.
Sulle sue origini e sui gradi di parentela le teorie non sono convergenti, alcune ricerche genetiche escludono affinità con vitigni campani e lo vorrebbero più vicino alla Tintilia molisana, altri studi basati sull’analisi del DNA su porzioni di foglie, dimostrerebbero un imparentamento con l’aglianico e con un’altra antica uva, la tintora.
Autoctono singolare, dal grappolo spargolo quindi maggiormente resistente alle muffe e all’annidamento di insetti, dalla maturità tardiva (la vendemmia avviene tra la fine di ottobre e la prima decade di novembre) dai tannini astringenti, difficile da domare se non lasciando fare al tempo il suo lavoro, il tintore è iscritto al Registro Nazionale della vite solo dal 2010 e oggi vive la sua nuova giovinezza grazie a viticoltori come Gaetano che credono nel suo valore e ne esaltano le potenzialità.
Vinificato in acciaio, figlio di un riposo di almeno 24 mesi in botte e 6 in bottiglia, E’ Iss ha un colore rosso rubino intenso e si caratterizza per una inaspettata freschezza, al naso note di mora sottobosco e cenere. Il sorso è pieno e sapido, la trama tannica è equilibrata ed elegante, il finale è persistente.
Come le vigne dalle quali nasce, questo vino sembra non aver fretta di esprimersi, promette di voler invecchiare per dare sempre più valore al tempo e al suo prezioso lavoro, insegnamento caro ai contadini e ai vignaioli di queste meravigliose terre.
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