Con i giorni di festa da poco conclusi e trascorsi in totale relax con le persone care abbiamo salutato un 2020 a fasi alterne, condizionato come non mai dalla pandemia, fatto di sottrazioni e desiderio costante di ritorno ad una libertà piena. Come vi ho anticipato ho provato a rivivere in tavola i momenti vissuti e mancati di quest’anno attraverso la scelta dei vini che in qualche modo potessero innescare i meccanismi del ricordo o dell’immaginazione, a tenerli come sottofondo di quelle due settimane che sono naturalmente accompagnate dalla volontà di tirare le somme, di fare un bilancio, riflettendo su ciò che ha esaltato le aspettative e ciò che in qualche modo le ha deluse. L’atmosfera si è dimostrata quella di cui avevo bisogno e come sempre la nota enoica ha fatto la sua parte.
Del periodo che ci siamo lasciati alle spalle mi è sicuramente pesata la lontananza dal mio luogo dell’anima, il Cilento. Trascorro le vacanze a Casal Velino da quando sono bambina e sento il bisogno di tornarci ogni volta che devo riordinare i pensieri e respirare un po’. Situato nella zona più a sud della Campania, il Cilento è un luogo fortemente identitario, non a caso dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, ricco di storia ed energeticamente unico, culla della filosofia, con la Torre di Elea, casa di Parmenide e Zenone, che si erge come un faro sulle spiagge assolate. Qui gli Antichi Greci 3000 anni fa portarono per la prima volta i vitigni oggi classificati come autoctoni. E’ il luogo che Trentenare, il fiano di San Salvatore, racconta come terra in cui il tempo rallenta dando spazio alla riflessione e all’incontro con sé, un’oasi dove rigenerarsi abbracciando ritmi e sapori diversi. Nei suoi sentori di ginestra e gelsomino rivivo le mie passeggiate in bicicletta al mattino presto, quando la brezza marina si fonde con l’umidità delle prime ore dell’alba ed accarezza una vegetazione fino a poco prima arsa dal sole, pronta a sprigionare il suo profumo. Quell’aria che provi a trattenere insieme alla sensazione di libertà mista all’euforia per essere immerso in tanta bellezza. E poi la sapidità, il sapore della terra e del mare mescolati, della sabbia che provi a trattenere ma ti scivola tra le mani, dell’acqua salmastra che resta addosso e che ti avvolge con il suo aroma, soprattutto quando il sole l’ha asciugata. Emozioni mancate e ritrovate in un calice.
Come in un calice ho ritrovato il racconto di una scoperta che questo 2020 mi ha regalato, la meraviglia dell’isola di Ischia su cui sono sbarcata in punta di piedi non essendoci cresciuta come chi me l’ha fatta esplorare. Una magia rivelata attraverso le passeggiate, la conquista giorno dopo giorno di albe e tramonti dove sole, spiagge, mare, vigneti e natura si fondono dando vita ad uno spettacolo che toglie il fiato. Un caleidoscopio di profumi e colori, dal blu del mare al bianco delle rocce di pomice e il verde di quelle di tufo, alle imprevedibili evoluzioni delle nuance del cielo. Terrazzamenti su pendii scoscesi, spesso arroccati in località isolate e difficili da raggiungere, filari che si stagliano tra muretti a secco inondati dal sole. Ischia è un perfetto esempio di viticoltura eroica ed offre tante e tali espressioni di qualità del terroir che un appassionato può solo innamorarsene.
Aenaria, uno dei nomi antichi attribuiti all’isola, significa “luogo di viti e di vino” e non poteva essere diversamente per la sua origine vulcanica che la rende naturalmente predisposta ad accogliere la viticoltura. Furono i greci Eubei ad introdurla fin dall’inizio del VIII secolo a.C.. Omero e Ovidio la descrivevano sottolineando il suo legame indissolubile con la terra.
Kalimera, la biancolella di Cenatiempo dalle note fruttate e floreali, restituisce appieno l’identità di questi luoghi. Figlio di una vinificazione in cemento bianco che coniuga tecniche antiche e sensibilità moderna, questo vino complesso da un punto di vista aromatico, abbraccia in modo caldo e seducente la mineralità del vulcano e quella del mare e dopo averlo degustato tante volte durante il soggiorno ad Ischia ritrovarla in tavola in questi giorni è stato come un viaggio nello spazio e nel tempo.
La Quadratura del Cerchio, un rosso dalla genesi assai singolare, la considero la mia anteprima di un viaggio a Montalcino che ho dovuto rinviare e non per scelta. In verità quando un progetto enologico di cui mi hanno parlato o di cui ho letto mi colpisce particolarmente, preferisco visitare la cantina e respirare il contesto in cui si è sviluppato prima di degustarne i vini. Ma l’attesa in questo caso si è fatta troppo lunga e bere questo rosso ha significato anticipare la scoperta di una realtà magica e affascinante, quella di Poggio al Sole di Roberto Cipresso.
Veneto trapiantato nel centro Italia, agronomo prestato all’enologia, winemaker e scrittore che ha fatto il giro del mondo per alimentare la sua passione e le sue competenze attraverso esperimenti sempre nuovi, Cipresso fa dell’emozione e dell’intuizione le chiavi di lettura dell’esperienza enologica. La cosa che mi ha colpito leggendo i suoi libri e le interviste in cui racconta il suo percorso è la tensione continua alla ricerca del blend perfetto andando oltre gli schemi, insieme alla capacità di aggiungere ad ogni descrizione una nota che combina l’aspetto tecnico con quello emozionale, ragione e sentimento armoniosamente mescolati.
La Quadratura del Cerchio è frutto di questo suo approccio. Questo vino, blend di Montepulciano, Sangiovese e Sagrantino, dal colore rosso rubino, dal tannino deciso ma elegante, matura in barrique di rovere francese, per una metà nuove e per l’altra di secondo passaggio. Profumi fruttati, ciliegia in testa, lasciano spazio a sentori di tabacco. L’impressione che lascia è quella di un piccolo universo in cui c’è assonanza, equilibrio tra le parti, espressione di pura armonia, ma c’è un segreto dietro questo risultato, e ve ne parlerò in uno dei prossimi post perché merita un approfondimento.
Durante le feste non può mancare un vino da meditazione, quello che degusti lontano dai pasti, in silenzio, ascoltando musica o leggendo un libro. È una sorta di rito cui dedico una parte del tempo per assaporare e scoprire con lentezza ciò che un vino complesso ha da raccontare. Ormai da due anni la mia scelta ricade sull’Amarone di Monte Zovo che ha per me un valore affettivo particolare: è l’ultima bottiglia regalata a mio padre, quella che non abbiamo avuto il tempo di bere insieme. Ogni anno, come a voler ritrovare quel momento di condivisione che mi è stato negato ma che provo ad immaginare, mi concedo uno spazio tutto mio, o meglio tutto nostro, per assaporare questo nettare speciale nelle sue nuove annate. Corposo, ammorbidito dai tannini arrotondati ed avvolgenti, vellutato e al tempo stesso potente, dal colore rosso granato impenetrabile, si apre con sentori di frutta matura, ciliegie sotto spirito, composta di prugne per lasciare poi spazio a spezie, vaniglia, liquirizia e caffè tostato. La sua persistenza riempie gli spazi di riflessione.
Per completare il racconto delle emozioni enoiche delle ultime settimane mancano solo le bollicine, quelle con cui tradizionalmente si saluta il vecchio anno e si dà il benvenuto al nuovo con i migliori auspici. La mia scelta è ricaduta su Leonia Rosè di Frescobaldi, fruttato, dal gusto ampio rotondo e morbido, elegante. Questo vino spumante metodo classico prodotto dai migliori Pinot Noir di Pomino mi ha riportato ad un bel momento, il mio primo Merano Wine Festival, uno degli eventi più noti del mondo del vino dove si fondono eleganza, sofisticazione ed eccellenza. È un crogiolo di emozioni, disparate e intense. È il coronamento di mesi di lavoro per gli espositori. Ci siete mai stati tra i suoi meravigliosi saloni o avete mai partecipato alle serate di degustazione nei palazzi d’epoca? La suggestione è grande. Le bottiglie sono per i produttori come figlie al ballo delle debuttanti, nella loro veste più bella, ormai mature e pronte per incontrare il mondo che sta lì ad ammirarle in una atmosfera fiabesca. Ed è difficile rinunciare a tutto questo. L’auspicio è che si torni presto a poter respirare l’atmosfera dei grandi eventi, delle degustazioni, delle visite in cantina che, per chi è semplicemente appassionato o è parte integrante di questo mondo, rappresentano un’esperienza imprescindibile di cui il 2020 ci ha forzatamente privati e alla quale speriamo che il nuovo anno ci restituisca quanto prima.
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