Quando ho bevuto per la prima volta una tintilia molisana sono rimasta colpita dal suo calore e dalla sua intensità, dai tannini importanti ma non troppo invadenti, dall’eleganza delle sue note speziate avvolte da sentori di frutta rossa. Un vino appassionante, non meno della leggenda alla base delle sue origini che, non a caso, ha a che fare con una storia d’amore.
La comparsa in Molise della tintilia sarebbe infatti da collocare in età borbonica, quando il primogenito del conte Carafa, nobile di origini napoletane, discendente dai nobili Caracciolo, si innamorò della figlia di un luogotenente dei Borboni di origine spagnola chiedendola in sposa.
In occasione del banchetto nuziale la giovane donna portò in dote il vino, nettare prelibato proveniente dalla Spagna, il cui nome derivava da “tinto”, il rosso caratteristico dei vini ricchi di colore della parte più interna della penisola iberica.
Poco dopo le nozze la fanciulla si ammalò e morì prematuramente lasciando nella disperazione l’inconsolabile Conte Carafa che, in memoria di lei, commissionò in Spagna alcune marze del vitigno, impiantando così nell’agro di Ferrazzano la prima vigna di Tintilia.
Anche andando oltre la leggenda e stando alla storia, abbiamo conferma che la Tintilia provenga dalla famiglia delle Tintorie Spagnole.
La sua coltivazione crebbe grazie all’agronomo Raffaele Pepe e ne abbiamo testimonianza proprio grazie ad una sua nota datata 1810, con la quale, stilando un rapporto sulla situazione ampelografica e di specie botaniche presenti sul territorio, ne richiese al Consigliere di Stato del Regno delle Due Sicilie, Melchiorre Delfico, l’inserimento in una lunga lista di vitigni che avrebbero dovuto arricchire l’assortimento varietale dell’allora Provincia del Molise.
Dopo anni di declino dovuto anche alla bassa resa del vitigno e alla difficolta di gestione agronomica, si può dire che oggi la tintilia è diventata il vessillo di una delle regioni più piccole di Italia, un vino in grado di esprimere appieno il suo terroir.
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